1 – La pur non ampia motivazione della pronunzia tocca una serie di aspetti che meritano di essere approfonditi e commentati, fra poteri e doveri del comandante della nave, poteri di polizia marittima, organizzazione e competenza del soccorso in mare, obblighi dello Stato della bandiera e sicurezza della navigazione, sicurezza a bordo, rispetto al problema generale delle migrazioni di massa attraverso il Mediterraneo (tema su cui esiste ormai una copiosa letteratura: cfr., ex plurimis, con punti di vista diversi: L’immigrazione irregolare via mare nella giurisprudenza italiana e nell’esperienza europea, a cura di A. Antonucci, I. Papanicolopulu, T. Scovazzi, Torino, 2017; S. Trevisanut, Immigrazione irregolare via mare, diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Napoli, 2012; L. Salamone, La disciplina giuridica dell’immigrazione clandestina via mare. Profili di diritto interno, europeo e internazionale, Piacenza, 2019; M. M. Comenale Pinto, Immigrazione clandestina e salvaguardia della vita umana in mare, in Riv. dir. nav., 2011, 585).
Il particolare contesto ha portato recentemente, in una decisione del Gip del Tribunale di Trapani del 23 maggio – 3 giugno 2019, n. 112 (consultabile on-line alla pagina https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2019/06/2019_tribunale_trapani_vos_thalassa.pdf) a riconoscere la scriminante della legittima difesa a dei migranti che, minacciando l’uso della forza, si erano opposti al rientro verso le coste libiche (cfr. il commento adesivo di L. Masera, La legittima difesa dei migranti e l’illegittimità dei respingimenti verso la Libia (caso Vos-Thalassa), in Dir. pen. contemporaneo, https://www.penalecontemporaneo.it/d/6754-la-legittima-difesa-dei-migranti-e-lillegittimita-dei-respingimenti-verso-la-libia-caso-vos-thalassa).
Rispetto alla vicenda decisa con tale ultima pronunzia, questa oggi in esame non contemplava respingimenti: si trattava del diniego di ingresso nelle acque territoriali, e del permesso di attracco in un porto nazionale, di una nave che aveva operato un soccorso al di fuori dell’area SAR di competenza italiana; durante il suo svolgimento era peraltro entrato in vigore, a livello di normativa interna, il d. l. 14 giugno 2019 n. 53 (cosiddetto «decreto Sicurezza bis»), che ha novellato il d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 («Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero»), prevedendo, fra l’altro, la competenza del Ministro degli interni, quale Autorità nazionale di pubblica sicurezza a «limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’art. 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689». Peraltro, il relativo provvedimento va comunque «adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri» (art. 1, che inserisce, in tal senso, il comma 1-ter nel testo dell’art. 11 del d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286). Con l’art. 2 del «decreto Sicurezza bis», è stata anche inserita la previsione di sanzioni amministrative per il comandante della nave che violi divieti e limitazioni imposti sulla base della nuova previsione testé ricordata. Giova sottolineare che il divieto di approdo per le navi con immigrati soccorsi in mare a bordo ha una serie di precedenti, in Italia (destò clamore la vicenda della nave «Cap Anamur» nel 2004, su cui v. F. Vassallo Paleologo, Il caso Cap Anamur. Assolto l’intervento umanitario, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2-2010, 88; S. Trevisanut, Le Cap Anamur: profils de droit international et de droit de la mer, in ADM, 2004, 49) e all’estero (come il caso «Tampa» in Australia, su cui P. Mathew, Australian Refugee Protection in the Wake of the Tampa, in Am. J. Int’l L., 2002, 661; M. Fornari, Soccorso di profughi in mare e diritto d’asilo: questioni di diritto internazionale sollevate dalla vicenda della nave Tampa, in Comun. intern., 2002, 61).
2.– Un aspetto merita di essere immediatamente evidenziato, al di là degli approfondimenti che la Rivista del diritto della navigazione si riserva di svolgere nei suoi prossimi fascicoli: per escludere la sussistenza del reato di cui all’art. 1100 c. nav., si è affermato che l’unità navale della Guardia di Finanza rispetto alla quale erano stati compiuti atti di atti di resistenza e di violenza non avrebbe potuto essere considerata «nave da guerra», motivando con il richiamo di una presunta giurisprudenza della Corte costituzionale. Sulla base di quest’ultima, secondo il provvedimento da cui traiamo spunto, avrebbe dovuto concludersi, che le unità navali della Guardia di Finanza siano navi da guerra «solo «quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare». Il riferimento è a C. cost., 7 febbraio 2000, n. 35 (pubblicata con commenti in varie riviste giuridiche, fra l’altro, in estratto in Dir. trasp., 2001, 671, con nota redazionale che già chiarisce come la Corte si fosse, mossa nel solco della precedente giurisprudenza, che non escludeva affatto la qualificazione di «nave da guerra»). La pronunzia costituzionale avrebbe dovuto essere contestualizzata (si trattava della decisione sull’ammissibilità del referendum sulla smilitarizzazione del Corpo della Guardia di Finanza), ed avrebbe dovuto essere considerata sulla base di una lettura integrale. Al § 4 della motivazione di tale decisione si evidenziavano i compiti prettamente militari del contingente di mare del Corpo, chiamato a svolgere «anche fuori delle acque territoriali» («anche», non solo, occorre sottolineare), «funzioni tipicamente militari in collaborazione con la Marina militare»), e si aggiungeva (testualmente) che «le unità navali in dotazione della Guardia di finanza sono qualificate navi militari, iscritte in ruoli speciali del naviglio militare dello Stato». Seguiva l’elencazione dei compiti di tali unità, evidenziando che «battono bandiera da guerra e sono assimilate a quelle della Marina militare». In tale ambito si faceva menzione anche degli artt. 1099 e 1100 c. nav., ma il richiamo all’esercizio dei poteri di polizia propri della nave da guerra era riferito all’art. 200 c. nav., con lettura riduttiva rispetto al dato testuale (che prevede espressamente l’esercizio dei poteri di polizia delle navi da guerra anche «nel mare territoriale»). Anche a voler ritenere verificati i presupposti, il fatto che le unità in questione fossero chiamate ad esercitare quei tipici poteri delle navi da guerra all’estero, non avrebbe di per sé escluso che dovessero essere considerate navi da guerra anche nelle acque e nei porti nazionali (nonostante venga riconosciuto il collegamento logico fra art. 200 c. nav. da un lato e artt. 1099 e 1100 c. nav., dall’altro: cfr. M. M. Angeloni – A. Senese, Il concetto di nave da guerra nel diritto interno e internazionale, in Dir. trasp., 1998, 383, ivi, 407). In realtà, il passo della motivazione della richiamata pronunzia della Corte costituzionale era comunque una semplice ricognizione del quadro normativo, volta a sostenere la motivazione del diniego di ammissibilità del referendum, sull’assunto che «la “militarità” caratterizza l’intera attuale disciplina del Corpo, tradizionalmente appartenente, a differenza di altri corpi militari dello Stato, alle Forze armate: anche in caso di esito positivo della consultazione referendaria, permarrebbero i modelli militari ai quali si è storicamente uniformata – e continua ad uniformarsi – la Guardia di finanza; modelli non suscettibili di essere modificati mediante mere abrogazioni, in particolare della norma che sancisce l’appartenenza del Corpo alle Forze armate ovvero delle norme che si richiamano alla tipica terminologia militare adottata per definirne il personale o la struttura organizzativa» (C. cost., 7 febbraio 2000, n. 35, cit.).
Insomma, si tratta di un quadro che conduce a dubitare che, con quella pronunzia, la Corte volesse (o potesse) interpretare riduttivamente la qualificazione come navi da guerra delle unità della Guardia di Finanza. D’altra parte, la giurisprudenza penale ha costantemente riconosciuto l’inquadramento delle unità della Guardia di Finanza nell’ambito delle navi da guerra, sia nelle acque territoriali, sia in alto mare, con conseguente applicabilità rispetto ad essere degli artt. 1099 e 1100 c. nav.: ex plurimis, Cass. pen., ord. 6 novembre 2014 – 26 novembre 2014, n. 49211; Cass. pen., 14 giugno 2006 – 21 settembre 2006, n. 31403, in Dir. maritt., 2007, 832, con nota critica di M. Grimaldi, Sull’applicabilità della nozione di «nave da guerra» alle unità navali della guardia di finanza; Cass. pen., 17 maggio 1995 – 22 settembre 1995, n. 9789; Cass. pen., 11 luglio 1988 – 13 dicembre 1988, n. 12326. Cass. pen., 11 luglio 1988 – 13 dicembre 1988, n. 12326 è pervenuta alla medesima soluzione con riferimento ad una motovedetta dell’Arma dei Carabinieri. Ha invece escluso l’applicabilità dell’art. 1100 c. nav. a vicende accadute nella Laguna veneta, sulla base dell’art. 1087 c. nav.: Cass. pen., 24 giugno 2003 – 8 agosto 2003, n. 34028 (contra: Cass. pen., 14 giugno 2006 – 21 settembre 2006, n. 31403. Sul riconoscimento dei poteri ex art. 110 UNCLOS alle navi della Guardia di finanza, in quanto navi da guerra, cfr. Cass. pen., 23 maggio 2014 – 20 agosto 2014, n. 36052, in Cass. pen., 2015, 1153. Nella letteratura recente, identificano come nave da guerra le unità navali della Guardia di finanza: G. Reale, Il concetto di nave da guerra e la sua applicabilità alle unità navali della Guardia di Finanza, in Annali dell’Università degli Studi del Molise, 9/2007, 347, ivi, 365 ss.; M. M. Angeloni – A. Senese, Il concetto di nave da guerra nel diritto interno e internazionale, cit., 410.
3. – Va sottolineato che il codice della navigazione presuppone, ma non definisce affatto la nozione di «nave da guerra»; questa va pertanto ricostruita sulla base di altre previsioni. Ed è incidentalmente da chiedersi se la nozione che può ricavarsi in base al diritto interno coincida con quella di diritto internazionale. In quest’ultimo ambito, va richiamato l’art. 29 della convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare di Montego Bay del 10 dicembre 1982, il cui testo inglese recita «For the purposes of this Convention, “warship” means a ship belonging to the armed forces of a State bearing the external marks distinguishing such ships of its nationality, under the command of an officer duly commissioned by the government of the State and whose name appears in the appropriate service list or its equivalent, and manned by a crew which is under regular armed forces discipline». Si tratta peraltro di definizione sostanzialmente conforme a quella recata dalla precedente convenzione di Ginevra del 29 aprile 1958 sul regime dell’alto mare, all’art. 8, § 2 (in generale, sulla nozione nel diritto internazionale, cfr. A. De Guttry, Lo status della nave da guerra in tempo di pace, Milano, 1994, 7 ss.; B. H. Oxman, Le régime des navires de guerre dans le cadre de la Convention des Nations Unies sur le droit de la mer, in AFDI, 1982, 811, ivi, 813 ss.). Accanto alla nozione di «nave da guerra», la Convenzione del 1992 conosce quella di nave impiegata esclusivamente per servizi governativi non commerciali (artt. 32, 96 e 236), a cui fa riferimento anche la Convenzione di Ginevra del 29 aprile 1958 sull’alto mare (art. 9).
Più complesso appare il quadro di diritto interno, in particolare dopo l’entrata in vigore del Codice dell’ordinamento militare, di cui al d. lgs. 15 marzo 2010, n. 66, che non ha contribuito ad eliminare le ragioni di incertezza. Qui occorre soltanto sottolineare che la giurisprudenza più sopra richiamata, che ha riconosciuto alle unità della Guardia di finanza il carattere di «navi da guerra», è tutta relative a vicende perfezionatesi prima della sua entrata in vigore.
L’art. 239 del codice dell’ordinamento militare, dopo avere definito al comma 1 la nozione di «nave militare», al comma 2 enuclea di elementi caratteristici della «nave da guerra», intesa come «nave che appartiene alle Forze armate di uno Stato, che porta i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità ed è posta sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio è sottoposto alle regole della disciplina militare» (si riporta qui il testo vigente, a segui della modifica di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), n. 2), d. lgs. 24 febbraio 2012, n. 20). Inoltre, il successivo art. 2268, comma 1, del codice dell’ordinamento militare ha abrogato alcune delle disposizioni sulla base delle quali si era sostenuta in passato la tesi della natura di nave da guerra delle unità navali della Guardia di finanza. Il riferimento è qui in particolare all’art. 133 della «legge di guerra», di cui al R.d. 8 luglio 1938, n. 1415, che recitava: «Sono navi da guerra quelle comandate ed equipaggiate da personale militare o militarizzato, iscritte nelle liste del naviglio da guerra, e che legittimano la propria qualità mediante i segni distintivi adottati, a questo fine, dallo Stato al quale appartengono». Con scarsa coerenza, però, è stata mantenuta la vigenza del successivo art. 134 della medesima legge di guerra, che riguarda trasformazione in navi da guerra delle navi mercantili. In effetti, quest’ultima disposizione, fa riferimento ai medesimi caratteri dell’ormai abrogato art. 133, appena richiamato, per individuare i presupposti sulla base dei quali una nave possa essere considerata come «da guerra»: utilizzazione degli appositi segni distintivi; posizione del comandante, assoggettamento dell’equipaggio alla disciplina militare. Un altro riferimento alla nozione di nave da guerra, nella legislazione vigente, è contenuto nell’art. 11 del codice penale militare di pace, che, tuttavia, non sembra utile a tracciare i confini fra «nave da guerra» e «nave militare». Viceversa, l’art. 2269 del Codice dell’ordinamento militare ha provveduto ad abrogare la disciplina dell’iscrizione nel quadro del naviglio militare dello Stato di unità dell’Arma dei carabinieri, del Corpo della guardia di finanza, del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza e del Corpo delle capitanerie di porto, a suo tempo recata dal d.P.R. 31 dicembre 1973, n. 1199. Con riferimento specifico alle unità della Guardia di finanza, d’altro canto, l’applicabilità della disciplina degli articoli 1099 e 1100 c. nav. era stata espressamente prevista dalla l. 13 dicembre 1956, n. 1409 (recante «Norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi»), agli artt. 5 e 6, sia pure rispetto alla condotta (soltanto) del «capitano della nave nazionale». Tale legge è ancora vigente, non avendo avuto seguito l’abrogazione, che pur era prevista nella tabella A del d. l. 25 giugno 2008, n. 112 («Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria»), con soluzione non seguita in sede di conversione (con la l. 6 agosto 2008, n. 133). Occorre dare atto delle difficoltà interpretative e sistematiche che derivano da tali previsioni. Da un lato, può porsi la questione se l’estensione espressa della disciplina non sia da intendersi come riconoscimento della non applicabilità ex se (G. Ferraro, La definizione giuridica di nave da guerra. Analisi della normativa internazionale e nazionale, in Dir. maritt., 1995, 1177, ivi, 1185); dall’altro, potrebbe sorgere il dubbio che il campo di applicazione sia circoscritto alla materia a cui è intitolata la legge (in tal senso sembrerebbe: M. Grimaldi, Sull’applicabilità della nozione di «nave da guerra» alle unità navali della guardia di finanza, cit., 835; conf. Cass. pen., 24 giugno 2003 – 8 agosto 2003, n. 34028, cit.; la questione non rileva nella vicenda da cui traiamo spunto, in quanto la nave coinvolta non era italiana; tuttavia Cass. pen., 14 giugno 2006 – 21 settembre 2006, n. 31403, cit., sembra invece considerare l’applicabilità).